Piero Delfino Pesce
«il più gentile fra i fiori
del sapere»
Tommaso
Fiore
«Pesce è uno dei pochissimi,
oso dire il solo repubblicano
della mia
generazione, che abbia una forza di pensiero
propria,
nobile e originale. Ciò è onorevole per lui,........»
Terenzio Grandi
Piero Delfino Pesce nacque a Mola di Bari il 1° giugno del 1874. Era
il primo di sette figli di un uomo di idee liberali e repubblicane
che da ragazzo era scappato da casa per arruolarsi, allo scoppio della
terza guerra di Indipendenza, nei Cacciatori delle Alpi di Garibaldi e
che sempre fu molto attento alla educazione dei suoi figli.
Dopo aver conseguito nel 1892 la maturità classica presso il liceo
di Molfetta, Pesce si trasferì in Campania per frequentare la facoltà di
Giurisprudenza presso l’Università di Napoli. Qui segue le
lezioni di Giovanni Bovio, il quale contribuisce in modo sensibile alla
sua formazione intellettuale e politica.
Conseguita la laurea, Pesce ritornò in Puglia nel 1897 e due anni
dopo avviò l’impresa editoriale di «Aspasia»,
che aveva come sottotitolo «Cronaca d’arte». La rivista,
che ambiva a un respiro nazionale, uscì la prima volta a Bari il
2 aprile del 1899 e continuò le pubblicazioni fino al 20 dicembre
del 1900. Per quel che riguarda i collaboratori troviamo
Luigi Capuana, Salvatore di Giacomo, Lucio D’ambra, Guelfo Civinini
e Arnaldo Cervesato
Nel 1901, scrive alcune novelle che vengono pubblicate in volume col titolo
di Macchiette. A partire dal gennaio 1902, svolge
un’intensa attività editoriale in qualità di redattore
capo nella rivista romana «La Nuova Parola». Il
lavoro redazionale gli consente di entrare in contatto con i diversi redattori
della rivista – Sibilla Aleramo, Giovanni Amendola e Arturo Lancellotti – nonché con
alcuni collaboratori, seppure saltuari, come Giovanni Papini, Giuseppe
Prezzolini ed Emilio Cecchi.
Intanto nel 1902 pubblica, presso l’editore Vecchi di Trani, una
raccolta di liriche intitolata Preludio; e nel 1904, porta a compimento
la sua riflessione sull’arte, pubblicando, per la casa editrice Laterza
di Bari, Riflessi, che si presenta come il
suo libro più importante.
Nel 1905, grazie al voto dei suoi concittadini viene eletto consigliere
provinciale per il mandamento di Mola per il settennio 1905-1912. Sono
questi gli anni in cui si sta costruendo l’Acquedotto Pugliese e
Pesce si mise in gioco, ingaggiando dai banchi dell’opposizione una
virulenta battaglia in seno al Consiglio Provinciale di Bari nei confronti
della lentezza dei lavori, della gestione degli appalti e degli interessi
privati, con l’obiettivo di rendere pubblica la gestione dell’Acquedotto
stesso.
Nel 1907 si sposa con l’ostunese Caterina Tanzarella: dal matrimonio
nasceranno quattro figli. Nel 1911 pubblica Il diritto;
fonda la casa editrice Humanitas; e, infine, la rivista settimanale «Humanitas» (1911-1924),
che rappresentò, in tutti i suoi tredici anni di vita, un momento
comunque importante per lo sviluppo della coscienza democratica del nostro
Paese. Pesce aprì il suo giornale al libero dibattito di idee senza
alcun pregiudizio di appartenenza ideologica. Di fatto l’«Humanitas» fu
una tribuna aperta a voci diverse: accanto agli articoli di scrittori politici
di area repubblicana come Terenzio Grandi, Eugenio Chiesa, Napoleone Colajanni,
troviamo anche articoli di scrittori eretici o di difficile collocazione
come Mario Gioda, Alfonso Leonetti, Dino Fienga e Tommaso Fiore, nonché gli
scritti di poeti e letterati come Anton Giulio Bragaglia, Francesco Meriano,
Enrico Cardile, Hrand Nazariantz e Salvatore Quasimodo.
Nel luglio 1922 il partito repubblicano di Puglia, guidato da Pesce, aderisce
all’iniziativa unitaria delle forze antifasciste, inserendosi in «Alleanza
del lavoro» per preparare «un terreno comune di difesa contro
le sopraffazioni, le violenze conservatrici, a sola ed esclusiva tutela
di un minimo di fondamentali libertà politiche e civili».
Da qui il suo impegno contro il fascismo e il suo arresto: l’8 agosto
fu deferito all’autorità giudiziaria sotto l’imputazione
di «formazione di bande armate contro i poteri dello Stato, istigazione
a delinquere e complicità in omicidio». Rimase in carcere
per un mese finché i magistrati presero atto che le accuse a suo
carico erano infondate.
Dopo l’arresto, Pesce non dà tuttavia alcun segno di cedimento.
Nel dicembre del 1922, partecipa a Roma al congresso del PRI e parla a
favore della linea dell’intransigenza contro la minoranza del partito
che sosteneva una posizione accomodante nei confronti del fascismo. L’ordine
del giorno approvato fu quello per l’appunto di Pesce: «Il
XVI Congresso Repubblicano, preso atto che di fronte alla reazione incombente,
si afferma e si fa coscienza di masse la necessità politica nella
difesa delle libertà civili ed economiche, delibera di persistere
nelle proprie direttive di rigida e fervida intransigenza».
Nel rilevare l’impegno del direttore di «Humanitas» contro
il fascismo, Tommaso Fiore nell’articolo Fascismo e Mezzogiorno,
pubblicato il 30 ottobre 1923 su «la Rivoluzione Liberale»,
scrive che in Puglia è rimasta «una voce libera, quella del
repubblicano Pier Delfino Pesce, anch’egli nazionalisticheggiante,
ma una sola, predicante nel deserto». Da qui le persecuzioni fasciste:
la casa editrice «Humanitas» fu più volte devastata
da fascisti armati; e la stessa cosa accadde alla villa di San Materno
nell’agro di Mola.
Il 1924 è l’anno di fuoco di «Humanitas»: in vista
delle elezioni politiche, Pesce sostiene l’astensione del PRI, ma,
quando nella direzione del partito prevale la tesi della partecipazione,
si lascia mettere in lista insieme ad un gruppo di intellettuali borghesi
meridionalisti di grande prestigio.
Dopo l’assassinio di Matteotti, Pesce, come tanti altri, riteneva
che il crollo del regime mussoliniano fosse ormai inevitabile e accentuò pertanto
il tono antifascista della sua «Gazzetta»: chiede le dimissioni
di Mussolini e incita alla rivolta. Ma la reazione dei fascisti non si
fa attendere: un’irruzione di squadristi – guidati da di Crollalanza? – negli
uffici della sua tipografia produce danni irreparabili e la «Gazzetta» di
Pesce cessa le pubblicazioni nel dicembre del 1924.
Dopo la chiusura di «Humanitas», Pesce riprende la lotta contro
il fascismo, ma, il 5 aprile 1925, mentre era in corso una riunione per
indire una manifestazione contro la soppressione della libertà di
stampa e di associazione, viene nuovamente arrestato
Costretto dagli eventi ad abbandonare la sua professione di giornalista
e di insegnante – dopo aver insegnato per ventidue anni – Pesce
vede peggiorare le sue condizioni economiche. Quello che inizia per lui,
dopo la chiusura di «Humanitas», è un periodo di grande
depressione che dura circa dieci anni. A tale proposito, la lettera che
Pesce scrive a Terenzio Grandi il 1° gennaio 1927 è intensa
e, insieme, dolorosa: «Mi sono chiuso nel mio guscio. Dieci tra invasioni
domiciliari e perquisizioni; esonerato dall’insegnamento all’Istituto
Tecnico per non essere intervenuto alla commemorazione della marcia su
Roma; stimato, dicono essi, anche dagli avversarii, ma tenuto in quarantena
e sotto controllo. Sono tornato a fare l’agricoltore, il pittore,
il musicista; di nuovo faccio anche un po’ l’avvocato. Assisto
e noto. La penna si è incantata ma non mi si è spezzata tra
le dita; né si è piegata».
A partire dagli inizi degli anni Trenta, una nuova fioritura spirituale
lo riporta ai suoi anni migliori: scrive diverse commedie e, nel 1938,
Anton Giulio Bragaglia mette in cartellone, presso il Teatro delle Arti
di Roma, una commedia di Pesce intitolata Una partita a carte.
«Come commediografo – scrive Nicola Uva - lasciò parecchi
lavori alcuni dei quali premiati e rappresentati con molto favore del pubblico
e della critica ufficiale. Interpretata da bravi dilettanti molesi, nel trigesimo
della morte del Pesce, sulle scene del Comunale di Mola, fu rappresentata la Novella
del Natale che la filodrammatica molese aveva iniziato a concertare sotto
la regìa dello stesso Autore, il quale la sera dell’11 dicembre
1939, alle ore 17, nella sala di prova, colpito da improvviso malore, si abbatté esanime,
cadendo così sulla breccia. Passò come visse: assertore e artefice
di un ideale di arte, d’amore, di giustizia, di umana fratellanza»*.
* N. Uva, Profilo di Piero Delfino Pesce, in Saggio storico su Mola di Bari, Dedalo, Bari, 1964.